Pratiche filosofiche nel mondo

Autore: di Thomas Gutknecht*

La Pratica Filosofica è estremamente impegnativa sia per la filosofia che per i filosofi: le aspettative che si nutrono verso la filosofia pratica sono notevoli, ben maggiori di quanto non ci si attenda dalla filosofia accademica. Il che avviene per varie ragioni: dal mio punto di vista un motivo di pressione in più è costituito dal fatto che la filosofia e il filosofare sono legati al linguaggio. Ciò implica, da un lato, l’esistenza di una pluralità di filosofie, dall’altro l’aspirazione, anche se tacita, ad una idea unitaria di filosofia e di pratiche filosofiche. Come ci si potrebbe, altrimenti porre la domanda, “Pratiche filosofiche nel mondo?” Si parla sempre all’interno di una certa lingua che condensa in sé un’intera tradizione e una determinata identità culturale: i problemi della pratica filosofica si pongono nella contestualità del dibattito tedesco diversamente da come si pongono, ad esempio, in Spagna o negli USA. L’inserimento della filosofia nella vita delle società, le aspettative verso la filosofia, la convivenza talora confusa di terapie, messaggi religiosi e orientamenti d’aiuto, gli stimoli a pensare (o gli inviti a rinunciare al pensiero) sono legati e dipendenti dall’identità culturale, così come ogni identità personale dipende dalla situazione intellettuale e sociale del contesto in cui si vive.

Il pensiero e le filosofie si differenziano a seconda delle strade che le diverse lingue aprono o limitano poiché il retroterra culturale di pensieri, parole e opinioni non è intercambiabile. Il che vale a maggior ragione per la filosofia in quanto essa non ha a che fare solo con contenuti, ma soprattutto con il processo intellettuale da cui questi contenuti emergono, processo che si differenzia sulla base della natura della lingua da cui esso fluisce.

Le lingue – il loro lessico, la loro grammatica, i loro fondamenti e il fondamento esistenziale ad esse sotteso - definiscono il nostro accesso alla realtà e la comprensione e l’interpretazione delle nostre esperienze: la sintassi dell’inglese si presta, certamente, meglio alla filosofia analitica, mentre il greco e il tedesco suggeriscono un approccio olistico, così come le lingue romanze consentono numerose variazioni stilistiche. I concetti sono associati alle storie: questa è la ragione per cui la parola eutanasia non ha in Germania la stessa connotazione che si ritrova in Nuova Zelanda; il dramma di Lessing “Nathan il saggio” e la celebre parabola dell’anello ha una diversa ricezione a Berlino piuttosto che a Il Cairo, così come la Divina Commedia di Dante suona diversamente se letta alla Facoltà Valdese di teologia, in via Pietro Cossa, o all’Università Gregoriana in Piazza della Pilotta. Ciò che in un mondo è recepito come un significativo esempio di umanità e tolleranza, è altrove avvertito come un’insolente provocazione.

Qualsiasi traduzione meramente tecnica, seppur pregevole, può rendere superficialmente comprensibile il pensiero ma non potrà mai trasferire palesemente il contesto esistenziale, né la forma di vita ad esso sottesa e nemmeno le differenze culturali.
Sottolineo questo per chiarire come la pratica filosofica in Corea sia qualche cosa di diverso da quella negli USA, e altrettanto quella statunitense sarà diversa dalla Philosophische Praxis in Germania; come è diversa la posizione della filosofia rispetto alla scienza e, in generale, nei confronti dei rispettivi contesti sociali, così è diversificata la posizione delle pratiche filosofiche entro una certa tradizione filosofica nazionale.

In alcuni contesti culturali non è un problema associare la psicoterapia alla pratica filosofica, in altri, invece, l’associazione di tali ambiti mozza il fiato al filosofo che si occupa di pratiche filosofiche: la filosofia pragmatica americana accoglie la carenza di teoria della filosofia pratica con una facilità che non è pensabile in Germania, data la rivalità dei circoli accademici. In alcuni paesi i filosofi che si occupano di pratiche filosofiche fanno riferimento all’arte del vivere delle filosofie ellenistiche, stoici e epicurei; in altri contesti nazionali si preferisce assumere come indicazione pratica il riferimento alla provocazione socratica e alla scepsi dell’atteggiamento di Socrate. Spesso accade che schieramenti correntemente accettati in alcuni paesi suscitino disapprovazione in altri: ad esempio, una discussione tipica in Germania concerne l’uso del termine “counseling” nell’ambito delle pratiche filosofiche; talvolta, il dibattito diviene grottesco e scolastico anche in relazione a questioni puramente strategiche, come la domanda in merito al diritto della IGPP di rivendicare l’aggettivo “internazionale” nella sua sigla, visto che la lingua prevalente all’interno del’associazione è il tedesco e non l’inglese, lingua franca internazionalmente. Secondo altri la questione andrebbe definita sulla base della provenienza dei membri e della loro lingua madre.

La domanda più importante, detto questo, però è: c’è necessità di un linguaggio filosofico universale, a fianco delle tradizioni consolidate? A tale scopo è importante tener presente che le tante concezioni di pratica filosofica riflettono la coscienza viva delle radici storiche e territoriali e, allo stesso tempo, è importante imparare a comprendere con generosità i programmi che, in modo diverso, si realizzano in diverse parti del mondo.
Ciò non implica relativismo o caos concettuale, anzi se mai è il contrario: la parola e l’entità “Philosophische praxis” non sottostanno alle discrezionalità di definizione di singoli o di singoli gruppi. E’ importante però intendersi su questa cosa: cercherò, quindi, di proporre una formula di accordo minimo; ammetto però che la mia posizione, che riflette la soggettività della mia percezione e interpretazione, può essere solo una tra le tante. Posso esplicare tutt’al più in modo definito – ma altrettanto umile – la mia attività e il movimento della Philosophische Praxis in Germania.

Per tornare al nostro tema, non vi farei onore ad elencare ciò che nel mondo viene ricompreso sotto la dicitura di “philosophische Praxis”: consulenza, cura dell’anima in senso laico o sostegno esistenziale in un tempo post-cristiano, filosofare in pubblico, riflessione e accompagnamento critico dei processi di formazione dell’opinione pubblica, educazione filosofica nelle scuole e formazione filosofica per adulti, prevenzione alla violenza e molte altre cose. Altrettanto superfluo sarebbe elencare le svariate forme di pratiche filosofiche: dialogo, conferenza, meditazione, iniziative artistiche e letterarie, Caffè filosofici, filosofia con i bambini, viaggi filosofici. Né aggiungerei qualche cosa se cercassi di stimare quanti colleghe e colleghi intervengono sulla scena o appartengono alla “community” mondiale dei filosofi “pratici”. Basti ciò, a questo proposito: in tutti le nazioni esistono fondazioni che rientrano nelle pratiche filosofiche. Ma vorrei chiarire che in un paese come la Polonia, ove la chiesa orienta ancora la conoscenza, il panorama é ben diverso rispetto a quello della Norvegia o della Danimarca, dove Università strutturate si possono concedere il lusso di sostenere pratiche creative nel campo della salute o delle politiche giovanili. In America latina i “filosofi” operano nelle favelas e nei sobborghi, e definiscono “pratica filosofica” il tentativo di insegnare agli oppressi una lingua per poter esprimere le loro sofferenze.

In Canada o nei Paesi Bassi coloro che si occupano di pratiche filosofiche attuano seminari di etica nell’economia, presso le sedi industriali o presso le Banche, o tengono corsi di leadership lungimirante. Conosco il caso di un collega, che è docente di etica presso l’esercito namibiano, che certo merita di essere riconosciuto, tuttavia non si tratta di una pratica filosofica. Perciò è doveroso dire: ci sono nel mondo 1000 modi di intendere le pratiche filosofiche, oppure essi sono 10.000 o più ancora? Diversificato da paese a paese è, inoltre, il collegamento con la prassi dell’accademia universitaria, differente anche per gli standard e le priorità: il legame con le università è molto controverso sul tema del riconoscimento professionale delle pratiche filosofiche. Personalmente ritengo che non avrebbe senso introdurre nei programmi universitari un corso triennale di “pratiche filosofiche”, ma che sarebbe forse possibile e sensato offrire una formazione post lauream, che abiliti all’esercizio della professione dopo il ciclo di studi quinquennale. Non è, d’altronde, proprio la pratica del filosofo ad opporsi ad ogni forma di preparazione scolastica? Non si dovrebbe desistere dall’applicare ai rapporti umani metodi, strumenti e tecniche, per coinvolgere piuttosto se stessi nella relazione senza riserve? e lavorare ai metodi, invece che con i metodi, per realizzare in quanto filosofi una praxis, piuttosto che una techne o una poiesis? In Germania sussiste la distinzione tra istruzione (Bildung) e formazione (Ausbildung): si viene istruiti da altri ma ci si forma da se stessi. La tecnica è strumentale e spersonalizzante, la prassi è comunicazione orienta tata all’accrescimento della libertà.

La pratica filosofica è filosofia praticata: che cosa significa filosofare? Significa innanzi tutto pensare, riflettere. Oggetto delle pratiche filosofiche è la questione del pensiero e il significato del pensiero per la vita del consultante, ascoltatore, interlocutore: la pratica filosofica ha a che fare con l’illuminazione critica e autocritica; si dimostra nel valore e nella forza di fronte a un amico, nel coraggio civile, nell’aiuto prestato a divenire un cittadino, un paziente, un cristiano più consapevole e così via. Kant scrive che gli uomini preferiscono un medico che consigli loro di rimanere sani, conducendo una vita non salutare, piuttosto che uno che prescriva loro una dieta saluberrima: da qui deriva il motto della maggioranza un po’ folle: “lavami, ma non bagnarmi!”.

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Io parlo di qualche cosa di diverso, di un pericolo sempre presente nelle relazioni umane, cioè della tensione al potere. In ambiti contenutisticamente importanti, alcuni colleghi sono spinti dalla volontà di apparire e dalla fame di successo a personalizzare questioni di interesse comune, seguendo interessi privati e a politicizzarle in modo non correttamente politico e imbarazzante: la loro strategia consiste, ad esempio, nel declassare questioni di contenuto a questioni semantiche. Quando si evidenzia, come faccio io, il legame tra il linguaggio e il filosofare, allora è necessario essere rigorosi e distinguere la disputa sulle cose dal conflitto sulle parole. (Ad esempio: io propongo non tanto di evitare, quanto di bandire l’espressione “filosofia applicata” perché essa rientra nella sfera della techne, non a caso, infatti, facciamo una distinzione tra razionalità comunicativa e razionalità tecnico-strumentale. La pratica filosofica rende capaci di agire e rinuncia alla cura: il non voler riconoscere tale differenza e la trascuratezza del pensiero hanno causato la diceria che i seguaci di Achenbach siano ottusi feticisti del concetto).

Esistono quindi due modi di affrontare la globalizzazione: la via della volontà di potenza, cioè di un’ideologia distruttiva, e la via del dialogo e dell’amicizia, cioè un sentiero di dialogo e di autenticità politica che non neutralizza le culture e che non riduce il globo a un piccolo villaggio per uomini simili a pulci; questa via porta alla vastità della varietà umana e alla sua ricchezza spirituale e intellettuale. In questo processo, un fattore di grande importanza è il riconoscimento reciproco, che si rende palese nella lotta per la verità e non nella promessa del raggiungimento del potere.

Tutto ciò è palesemente la riproposizione della controversia tra il Socrate platonico e i sofisti. Propongo, a questo proposito, di distinguere tra l’aspetto pratico e l’aspetto teorico della filosofia: la filosofa pratica consiste, all’interno della tradizione di pensiero tedesca, - diversamente dalla concezione americana – in una certa modalità del filosofare, un filosofare non disciplinato, senza “balaustre” (come da H.Arendt “Denken ohne Geländer”) e senza una routine di pensiero. Per seguire Adorno: “Non si filosofa sul concreto, ma a partire da esso”: io diffido delle abilità applicative.

Un opportuno scetticismo metodologico deriva dalla conoscenza dell’immensa varietà dei metodi: ce ne sono troppi per potersi votare ad uno solo. Alcune pratiche sono inumane, come ad esempio la dottrina dei comportamentisti, ciò per un motivo tra tutti: il destinatario non è l’uomo in generale, ma di volta in volta persone concrete con il loro destino. La filosofia come prassi non può essere ridotta a mera utilità e impiegabilità, a qualche cosa volto a servire all’evoluzione della morale o a procurare serenità d’animo. L’autosufficienza non dona senso. L’invenzione di mezzi per uno scopo determinato, per il quale la conoscenza è impiegata come uno strumento, è pratica tecnica, non pratica filosofica. Il criterio più importante della filosofia pratica è riconoscere il filosofico come non tecnico ma esso è, al tempo stesso, quello più misconosciuto. Proprio per questa ragione la filosofia pratica non è una forma di terapia, bensì l’alternativa ad ogni forma di terapia, nonché l’alternativa ad atteggiamenti pedagogizzanti e psicologizzanti: talvolta è meglio giungere al pensiero da una condizione di perplessità.

Al centro delle riflessioni filosofiche non sta tanto la domanda “cosa dovrei fare?”, quanto inizialmente, e soprattutto, le domande “Che cosa faccio io in realtà? Chi sono io veramente? Che cosa vuol dire essere un uomo, questo uomo e quest’io determinato?” La filosofia pratica accoglie i problemi, visto che non si tratta di rendere la vita più facile, bensì più significativa; non si tratta di mettere i problemi a lato – poiché comunque l’uomo è un problema per se stesso – bensì di attingere da situazioni problematiche.

In molti paesi oggi si tratta anche di definire un’immagine di professionista filosoficamente responsabile e di ottenere un riconoscimento per tale ambito professionale; perciò si discute di professionalizzazione, ethos professionale, e regole di base. In questo dibattito, secondo me, sono all’avanguardia i Paesi Bassi e la Scandinavia.

In conclusione vorrei dire tre cose:
Primo: c’è una grande carenza teorica, che richiede uno sforzo erculeo per essere superata e che persisterà finché ci saranno controversie filosofiche, cioè fino a quando gli uomini penseranno. Il che speriamo duri ancora molto tempo.
Secondo: quella teorica non è l’unica carenza, un ulteriore deficit è dato dall’ambivalenza tra l’individualismo che caratterizza i filosofi e la necessità di una tensione dialogica: chi pensa filosoficamente si impegna a pensare da sé e parla quindi a partire da una specifica individualità, poiché il pensiero è individuativo. Al tempo stesso però il pensiero è caratterizzato dal costruire legami: esso rinvia alla lingua e con ciò agli altri. Per dirla con Kant: ” Una buona società è indispensabile per chi pensa”; costruire mediazioni, organizzare il lavoro di squadra, sviluppare comprensione e rendere i conflitti proficui. La seconda indicazione richiede quindi l’elaborazione di teorie nella comunità di dialogo! Uno sviluppo non solo in se stessi ma anche dell’essere con altri, tra individui e da istituzione a istituzione.
Terzo: la breve storia delle pratiche filosofiche rende evidente quanto sia in ritardo la fondazione di un’istituzione a coordinamento delle attività nel mondo: lo dico in quanto presidente della IGPP, che, nonostante il suo nome, non aspira ad essere un omologo della IOC per gli interessi dei filosofi pratici. L’organizzazione che ho in mente dovrebbe piuttosto farsi carico, oltre che di questioni puramente pratiche e organizzative, prima di tutto di questi temi:
I) una considerazione dialogica delle storie della filosofia (storie al plurale) nelle varie culture;
II) l’esplorazione delle possibilità di realizzare una comune concezione di DIALOGO, che renda possibile la fiducia reciproca, la critica reciproca, che renda superflua un’eccessiva prudenza diplomatica e contenga i tentativi di politicizzazione in senso deleterio.
III) a partire dalla conoscenza delle differenze culturali i concetti di pluralità interculturale potranno essere confrontati e rapportati alle diverse forme di filosofia.

Estratto dal n.8 della Rivista Italiana di Counseling Filosofico

* Prof. Thomas Gutknecht

Presidente della International Society for Philosophical Practice presidente e membro fondatore del LOGOS-INSTITUT