Risposta.
Grazie della domanda. Intanto, dal punto di vista del rigore scientifico, la psichiatria schiettamente biologica, e la stessa evoluzione dei DSM, non mi sembrano troppo seri, così come non sembra seria la filosofia e l‟approccio al counseling filosofico che lei indicava.
Ma il confronto io lo farei, piuttosto, non tra la psichiatria biologica e le neuroscienze, che mantengono, comunque, un grande rigore scientifico, ma tra la psichiatria delle formule e delle diagnosi rappresentata dal DSM e questa filosofia, o meglio, questa pseudofilosofia o anti-filosofia, a cui lei si riferiva.
Nel contesto della tradizione terapeutica e delle relazioni d‟aiuto, infatti, che senso hanno le formule e le proposizioni assiomatiche? Ciò che conta, fondamentalmente, mi sembra risiedere nella capacità di stabilire relazioni. Ci sono psichiatri che hanno letto tutti i libri di questo mondo ma che, dal punto di vista strettamente terapeutico, sono una catastrofe.
A questo proposito emerge una differenza fondamentale tra le discipline mediche, in generale, e la psichiatria: mentre nelle prime c‟è una stretta connessione tra la conoscenza teorica e l‟applicazione pratica, uno psichiatra potrebbe davvero aver letto tutti i libri che sono stati scritti sulla psichiatria ma poi non possedere la capacità di creare relazioni empatiche (la parola empatia è bellissima, ma a me, personalmente, non piace).
Qui, lo ripeto, si tratta di una questione di attitudini, che taluni hanno e altri no. Nel corso della mia personale esperienza, sia all‟interno dell‟ospedale psichiatrico sia nell‟ambito dei servizi sociali, ho avuto modo di constatare che delle semplici infermiere – che in psichiatria sono di gran lunga migliori rispetto agli infermieri di sesso maschile, forse perché hanno saputo superare i limiti paurosi dell‟ospedale psichiatrico attraverso una metamorfosi psicologica, culturale ed esistenziale da lasciare sbalorditi – fossero dotate d‟una infinitamente maggiore capacità empatica rispetto a medici psichiatri che conoscevano tutto, che avevano letto tutto, e che conoscevano tutti i farmaci di questa terra.
Mi sembra emblematico, a questo riguardo, il caso di giovane down di vent‟otto anni che era precipitato in una condizione di violento rifiuto del cibo, tanto da giungere a pesare meno di trenta chili (è un caso decisamente particolare in quanto l‟anoressia, come loro sanno, è una malattia prettamente femminile, che sorge intorno ai vent‟anni). Era stato ricoverato in medicina generale e sottoposto a tutte le cure biologiche indispensabili, ma dal momento che il suo peso continuava scendere, e i medici erano in procinto di mandarlo a morire a casa, si è deciso di tentare un‟ultima chance in psichiatria. Ora, questo giovane si è salvato, e non certo, o almeno, non solamente, grazie alla nostra competenza psichiatrica e ai farmaci che gli abbiamo somministrato, ma anche e soprattutto grazie all'intervento di un‟infermiera che è riuscita a stabilire un‟eccellente relazione interpersonale e intersoggettiva, riuscendo a tenere viva la sua speranza, e ad aprire una breccia nel cuore, ormai quasi dissanguato, di questo giovane che versava in condizioni disperate.
Un esempio, questo, drammaticamente emblematico circa l‟importanza che riveste il saper vivere “misteriosamente”, perché, scusate, nel colloquio e nella comunicazione c‟è anche una frangia di mistero; non so cosa voi ne pensiate, ma noi razionalizziamo perché le parole ci colpiscono, in virtù del loro contenuto, e i modi stessi con cui le parole vengono dette, vengono espresse, trasformano radicalmente, profondamente, i contenuti stessi. Non so se loro concordano o meno…
Prima dell'inizio di questa lezione ho conosciuto una signora che da Bari viene a Torino per seguire questo corso di Couseling Filosofico – molto bello e decisamente interessante, ma comunque anche in parte rapsodico e in parte «poetico». Cosa dimostra? Secondo me sta a simboleggiare una straordinaria capacità vocazionale dell‟«essere chiamati» (questo «essere chiamati» è solo una premessa, ma se vogliamo cogliere fino in fondo il mistero delle cose credo che di fronte a fatti del genere, all‟interpretazione di tal genere di fatti, si resti proprio esterrefatti), e insieme un coraggio temerario di trascendere, di annullare e di incenerire le distanze al solo fine di poter ascoltare qualcosa; e non tanto le cose che uno dice, ma le parole che talvolta riescono a superare la «barriera autistica» in cui siamo tutti più o meno prigionieri (come ha scritto Lendt, uno psichiatra infantile tedesco, in un libro bellissimo che s‟intitola Il nostro autismo quotidiano).
Ecco, se volessi lasciare un‟immagine che possa salvare le parole, le quali, shakespearianamente, vengono dette e poi si bruciano come fiamme di candela, direi che siamo tutti prigionieri del nostro autismo quotidiano, e nel tentativo di sfondare questa corazza che impedisce la relazione, mi sembra risiedere l‟intimo significato del fare filosofia o non-filosofia, psichiatria o anti-psichiatria.
Dobbiamo essere consapevoli del fatto che esiste, al di là della patologia, una schiera infinita di persone, in cui siamo tutti compresi, che a volte possono essere salvate anche solo grazie a uno sguardo. Quanti sguardi ci sono, quante – e non è retorica – strette di mano esistono? Ci pensiamo?
Certo, possiamo anche chiamarlo linguaggio non verbale, ma sinceramente non mi piacciono le formule tecniche che non fanno che svuotare i significati delle cose. Una stretta di mano, qualora riesca a trasmettere effettivamente qualcosa, può essere tale, per uno schizofrenico che cammina – come loro sanno – sull‟orlo degli abissi, da consentirgli di prendere i farmaci, utilizzando la stessa componente psicologica che esiste in una stretta di mano e negli stessi farmaci antidepressivi più efficaci.
Anche perché gli antidepressivi, o gli ansiolitici, non sono certo antibiotici. A me, personalmente, gli antibiotici non piacciono; ma mentre l‟antibiotico agisce, per fortuna, come un carro armato, al di là delle risonanze psicologiche che nutro nei confronti dei farmaci, non è così per gli psicofarmaci; ci sono studi che dimostrano un‟efficacia maggiore del 30% nella misura in cui sia presente oppure assente una dimensione di ascolto, di accompagnamento da parte dei medici e degli infermieri all‟assunzione di questi medicinali.
Allora, se la sovradimensione psicologica ha un ruolo determinante, quello che è veramente in gioco nel momento in cui incontriamo una persona che chiede il nostro aiuto – indipendentemente dal fatto che l‟aiuto sia espresso o sia inespresso – risiede nell‟«esercitarci» (forse è meglio di «abituarci») a cogliere quello che c‟è appunto in uno sguardo, negli occhi, nei gesti e nel sorriso – che a volte sottintende lacrime dolorose e sferzanti – della persona che abbiamo davanti.
E allora, secondo me, possono cadere le barricate tra le discipline cliniche e quelle che cliniche non sono. In fondo, anche gli psicologi si affidano a una larga area di metascientificità, e non capisco perché chi ha studiato filosofia, e si è avvicinato ai segreti del dolore e della sofferenza, non possa svolgere, certo con una riflessione e una ricerca continua, un‟azione anche terapeutica.
A questo riguardo emerge il problema relativo alla distinzione tra fenomeni patologici e non patologici. In generale, si sostiene che chi si occupa di counseling filosofico non possa seguire persone che soffrono, ad esempio, di ansia; ma, domando, chi, nella nostra società quotidiana, non soffre di ansia? E poi, non vi sembra che nell‟ansia sia riposto un significato umano, psicologico e creativo? Sono convinto che senza ansia diventeremmo delle tartarughe private di orizzonti, senza futuro e senza speranza. L‟ansia non deve essere vista solo come qualcosa di terrificante, ma anche come quella funzione psicologica che ci mette in contatto con gli altri, e che ci permette di conoscere le ansie degli altri.
Non c‟è ansia nello spirito? Spaventiamoci! Anche questa è un‟immagine (che non è mia) che può essere salvata. “Spaventiamoci” non di soffrire, ma di non aver mai sofferto di ansia; spaventiamoci non di soffrire di depressione ma di non averla mai provata, di non averla mia vissuta, perché, se così fosse, non potremmo fare psichiatria, psicologia, filosofia, e nemmeno, naturalmente, psicologia applicata e Counseling Filosofico.
Quindi sono pienamente d‟accordo con le cose che lei ha detto, anche se le immergerei in questa prospettiva che, tra l‟altro, rimette in discussione anche gli infiniti idola, come questo, per esempio, secondo cui una persona ansiosa va dal medico e questo si sente immediatamente chiamato a risolvere la sua ansia con gli ansiolitici, che la distruggono neanche fosse un tumore da annientare. Secondo me sarebbe necessario, invece di distruggere l‟ansia, sterminare la sterilizzazione delle emozioni, l‟indifferenza, l‟apatia e la fretta (che, secondo Hillman, è una delle più terribili negatività della nostra vita) che dominano la nostra società contemporanea. Intesa quale rifiuto della pazienza e rifiuto dell‟attesa, la fretta significa proporsi mete che si vogliono raggiungere immediatamente, al di là di ogni atteggiamento di riflessione.
Sono convinto, allora, che se abbiamo come maestra di vita l‟ansia possiamo creare qualcosa di significativo, ma se abbiamo come maestra di vita la fretta, non riusciremo a realizzare nulla di personale, di importante, e non saremo neanche in grado di ascoltare e di aiutare gli altri.
«Beh, insomma, mi dica quali sono i suoi disturbi», è una delle domande ricorrenti che il medico frettoloso rivolge al suo paziente, per non parlare degli psichiatri che si limitano a conoscere e sondare solo la storia clinica, e non della storia della vita dei propri pazienti.
Si tratta di due storie ben diverse e dovrebbero servire, entrambe, a fare una diagnosi. La storia clinica è l‟espressione dei disturbi che il paziente prova in quel momento, descritti, formalizzati e formulati in senso clinico, mentre la storia della vita significa invece ripercorrere l‟esistenza del paziente nella sua totalità; ovviamente, ciò implica che un incontro, un colloquio psichiatrico, possa durare più di un‟ora, soprattutto quando l‟angoscia è tale che l‟interruzione significherebbe, potrebbe significare, il suicidio del paziente.
Nel rapporto psicologico che abbiamo con le persone, quindi, possono saltare molti dei paradigmi “tecnologici” di cui oggi il mondo vive sulla scia della capacità – purtroppo, credo, terribile – classistica degli Stati Uniti. Il DRG, cioè il tempo che ogni ospedale attribuisce al medico per fare una visita, ad esempio, è di venti minuti; ma se, nel caso si tratti di visite oculistiche, dieci minuti possono essere sufficienti, nell‟ambito della consulenza psichiatrica venti minuti non possono affatto bastare.
Questo atteggiamento, tra l‟altro, comunica anche, istantaneamente, l‟orrore a cui si giunge ponendo il criterio della “cronologicità” come assoluto, e come parametro esclusivo per valutare la capacità del medico; vige la convinzione che se uno psichiatra riesce a fare tre visite in un‟ora è di gran lunga più bravo, agli occhi dei dirigenti dell‟ospedale, dello psichiatra che impiega un‟ora. È questo, allora, il cambiamento radicale che noi dobbiamo attuare tra il tempo micidiale dell‟orologio, della clessidra, è uguale per ciascuno e per ciascuna di noi, e il tempo vissuto, per il quale, come loro sanno, questa ora e mezza di discorsi un po‟, così, rapsodici, possono essere lentissimi per taluni e velocissimi per altri.