Nuova Rivista di Counseling Filosofico N°15 | Dr. Paolo Poma


La prevenzione della depressione esistenziale cronica
Counseling Filosofico e malattia dell’angoscia

... ammesso e non concesso che il “destino della necessità” sia l’ultima parola della Filosofia qual è il rapporto tra l’individuo e la verità filosofica? –Paolo Poma

... l’angoscia, per evitare che essa degeneri in una passione nel senso letterale del termine, può e deve essere fatta tacere dalla “voce del Padrone”, dalla voce (non della coscienza, ma) della Conoscenza. –Paolo Poma


Abstract

Come prevenire la malattia dell’angoscia? Cosa vuol dire essere intellettualmente o spiritualmente “equipaggiati”, per non farsi paralizzare da quella sconvolgente (ma anche straordinariamente locupletante) presa di coscienza, che reca il nome di «depressione esistenziale»? Insomma, che significa riuscire ad avere ‒ nonostante tutto ‒ una visione positiva dell’esistenza? Non può risultare soddisfacente, in tal senso, alcun sistema “chiuso” e a carattere meramente soteriologico.
Pur tuttavia, da gran tempo, esiste una Sapienza iniziatica di cui la Filosofia non sembra tener conto abbastanza e che invece può rivelarsi decisiva. Coglierne fino in fondo la portata presuppone, in prima istanza, una radicalizzazione della domanda heideggeriana: “Che cos’è Metafisica?”. I giocatori in carne e ossa si chiamano René Guénon e Friedrich Nietzsche. E l’esito di questo scontro gigantesco? In tutta semplicità, ma anche nella maniera più enigmatica, si può rispondere: la contemplazione trascendentale o contemplazione «C».

Parole chiave: angoscia ‒ salvezza – liberazione – Super-Conscio

Osservazioni preliminari

Nel presentare il Convegno ISFiPP 2018, dedicato a La professione del Counselor Filosofico, Lodovico Berra ha fatto cenno anche al Counseling Filosofico come occasione di trasformazione interiore. Perfetto, perché in fin dei conti è proprio di questo che mi accingo a parlare. Anzi, direi che bisogna persino spingersi oltre, perché quello di “interiore” è ancora un concetto relativo, che presuppone l’esistenza di una presunta “esteriorità” ‒ laddove, invece, quel che si tratta di raggiungere è la totalità del Sé.
Ma procediamo con ordine. Intanto, vorrei complimentarmi con chi mi ha preceduto nel parlare; mi sembra, peraltro, che ‒ man mano che i relatori si succedono ‒ trovi conferma l’assunto che sta alla base della scelta del tema del convegno, ovvero che ciascuno di noi declini la professione di Counselor Filosofico in maniera marcatamente diversa, conferendole cioè un timbro affatto peculiare: il timbro di quella che si è soliti chiamare «equazione personale». Ecco perché mi sembra legittimo estendere al concetto, al Begriff di “Praktische Philosophie”, di Filosofia applicata, quanto Kant predicava della Filosofia in generale: essa non è soltanto ein Schulbegriff, cioè un concetto di natura meramente scolastica, ma, innanzitutto e per lo più, ein Weltbegriff, ovvero un concetto che non può non implicare un determinato “atteggiamento esistenziale”, una modalità specifica di “abitare il mondo”, di “essere-nel-mondo”.
In tal senso, quello che non sorprende affatto rispetto al «sorprendente Kant» (come lo chiamava Schopenhauer) è quanto scriveva Martin Heidegger a Karl Jaspers il 10 dicembre 1925: «La cosa più bella è che comincio ad amare realmente Kant». Parafrasando, dunque, un celebre passo delle kantiane Lezioni di metafisica, si può essere perentori nell’affermare che non è possibile diventare Counselor Filosofico senza conoscenze, ma le conoscenze, da sole, non bastano a fare il Counselor Filosofico. L’«equazione personale», insomma, non è solo quella del consultante che si ha dinnanzi (che un bravo Counselor, in qualche modo, riesce a intuire fin dalle prime battute del colloquio iniziale e che poi, certo, risulta decisiva per definire i margini di manovra che si possono avere con quella determinata persona), ma anche e in prima istanza è l’«equazione personale» del Counselor Filosofico stesso, il quale, sì, ha una formazione generale alle spalle, ma poi, com’è naturale, riesce a dare il meglio di sé, in termini di professionalità, in ben precise situazioni.

E, visto che siamo stati invitati per riferire qualcosa in proposito, posso dire che, per quanto riguarda il sottoscritto, questo accade soprattutto quando il consultante, da una parte porta in seduta un vero e proprio disagio esistenziale (che magari bisogna far emergere dal problema più circoscritto con cui egli si presenta), ma dall’altra parte, al contempo, dimostra di avere delle autentiche qualificazioni iniziatiche ‒ concedetemi questa polirematica dal sapore esoterico ‒ con cui ovviamente non intendo alludere a chissà quale preparazione cosiddetta culturale, ma a quelle innate potenzialità intellettivo-spirituali che costituiscono la conditio sine qua non per portare ai massimi livelli, anagogicamente parlando, la relazione d’aiuto. Il che significa: essere predisposti a compiere un percorso ontologico-metafisico che, indugiando sui grandi temi della “cura per ciò che sta in luce” (resa autentica, questa, del termine greco philo-sophia) e poi dell’auto-trascendenza, conduca sempre di più a prendere le distanze da se stessi, a guardarsi dall’alto, a liberarsi dalla prigione dell’«io» fino a raggiungere il «Sé» (Atma, in sanscrito); un «Sé», certo, connotabile in vario modo, ma che nel linguaggio che testimonia la Necessità del divenire, per un motivo su cui qui non potremo indugiare, prende il nome di contemplazione «C» o contemplazione trascendentale.

Dr.Paolo Poma, Counselor Filosofico Professionista

Ora, in questo percorso bisogna distinguere due momenti fondamentali, il primo dei quali, peraltro, non sempre necessario, perché è possibile che il consultante lo abbia esperito sufficientemente già per conto proprio.

Ad ogni modo, i due momenti sono:
1. il risveglio dell’angoscia, che può configurarsi come un vero e proprio descensus ad infera;
2. il risveglio dall’angoscia (o risveglio dallo stordimento nichilistico), che a sua volta si articola in:
° salvezza dall’angoscia;
° liberazione dall’angoscia.

Sono d’accordo con quanto affermato da Alberto Peretti nella relazione Il Counseling Filosofico applicato all'economia e all'agire d’impresa, cioè che una dottrina filosofica ‒ in fin dei conti ‒ è sempre legata a un suo portatore. Che sia «saggio convenire che tutte le cose sono l’Uno e l’Uno è tutte le cose», l’ha scritto, indubbiamente, Eraclito di Efeso; solo che egli, com’è noto, ha fatto precedere queste parole da altre molto più importanti (per la distinzione della Filosofia dal mito): «Ouk emou, alla tou logou akousantas [...]», cioè «Non dando ascolto a me, ma al Logos [...]» ... La verità è incontrovertibile solo in quanto l’individuo non la “inquina” con i «trastulli di bimbi» della “saggezza privata”, cioè non la fa scadere in quella cosa miserabile che è l’opinionismo filosofico. Se le asserzioni filosofiche fossero solo opinioni, non varrebbe la pena di ascoltarle!
Quindi, sì, ha ragione Peretti nel sostenere che il non rendersi conto che le aziende non producono solo capitali, ma anche vite, è un modo perdente di intendere il capitalismo; ma lo psicologismo non è forse il modo perdente di intendere la Filosofia?
Ci si può anche accontentare di dire che “Ogni verità non è altro che un’espressione della psiche”, ovvero che “Tutto è Weltanschauung”; ma questa tesi che valore intende avere, relativo o assoluto? Vuole o non vuole essere innegabile? Ridurre la Filosofia, la husserliana stringhe Wissenschaft, all’Erleben di Dilthey è un errore gigantesco. Quante volte Emanuele Severino ha insistito su questo!
Noi non ci sogneremmo mai di dire: “la mia geometria” o “la tua geometria” (certo, sappiamo che il coerentizzarsi del discorso geometrico ha condotto alle cosiddette “geometrie non euclidee”, ma che a scrivere gli Elementi sia stato proprio Euclide di Alessandria, è così rilevante? Allo stesso modo, se ci fossero davvero “la mia Filosofia” e “la tua Filosofia”, a chi toccherebbe stabilire la verità del nostro colloquio?
Che proprio io, uno che crede di essere un individuo di nome Paolo Poma, sia l’autore di Necessità del divenire, è così rilevante? Niente affatto!

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Dr. Paolo Poma, Counselor Filosofico Professionista
Il primo obiettivo: risvegliare l’angoscia

Nel titolo del mio intervento si fa un esplicito riferimento alla prevenzione della depressione esistenziale cronica. Ora, la prima parte della definizione di “depressione esistenziale”, fornita da Lodovico Berra, recita: «La depressione esistenziale è una modalità depressiva non patologica [...], che deriva da una particolare presa di coscienza della nostra realtà esistenziale [...]»
(Intanto, se ancora ce ne fosse bisogno per prevenire critiche piuttosto balzane, rimarchiamo la locuzione «modalità depressiva non patologica»... Perché ‒ e qui parlo esclusivamente per chi è Counselor Filosofico come il sottoscritto, non certo per eventuali psicologi, psicoterapeuti o psichiatri presenti in sala ‒ noi sappiamo benissimo che, se fossimo già nell’ambito del patologico, non ci troveremmo più nel nostro campo da gioco, ma in quello giustamente riservato ai vari esperti delle dinamiche psichiche.)

C’è un libro che Berra ha dedicato al tema dell’angoscia, La voce della coscienza. L’angoscia come via alla trascendenza, in cui fra i casi esemplari proposti spicca ‒ a mio parere ‒ quello di Claudia (o della cosiddetta Claudia, visto che i nomi sono fittizi), la quale si sentiva “vuota”, “inconsistente”, dispersa nell’heideggeriano Si impersonale. Ebbene, in maniera direi quasi maieutica, Berra ha in qualche modo aiutato Claudia a sintonizzarsi sulla frequenza dell’angoscia, un’angoscia (da non confondere con l’ansia, ma) intesa come Grundstimmung, come “tonalità emotiva fondamentale” che «zittisce la chiacchiera». Potremmo dire che, attraverso questa operazione, Berra ha fatto fare alla propria paziente Claudia il salto dal “soggetto” (ancora prigioniero di una visione frontale del mondo) al Da-sein (costitutivamente aperto al mondo). Tant’è vero che Claudia, nella lettera scritta a Berra a sei mesi dall’interruzione improvvisa dell’analisi (durata un paio d’anni), dichiara: «La mia angoscia è stata l’occasione per uscire dalla mediocrità, dalla distrazione che accompagnava la mia vita»
Ma poi ‒ e qui sta il nodo aporetico della questione ‒ ella aggiunge: «Questa uscita ha un prezzo: la sensazione di malessere che l’accompagna».

Ecco, allora, che qui si è passati da un malessere che precede l’esperienza rivelatrice dell’angoscia ‒ e che io, in un saggio intitolato «Quando Heidegger ci pianta in asso», ho appunto definito come malessere imputabile al vuoto d’angoscia (Claudia, incontrando Berra per la prima volta, si era presentata pronunciando le classiche parole di chi soffre e non sa il perché: «Sto male») ‒ a un malessere che segue quell’esperienza, dunque un malessere imputabile al pieno d’angoscia.

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La domanda che allora ciascuno di noi, in quanto Counselor Filosofico, dovrebbe porsi è la seguente: se il mal-essere c’è sia prima che dopo l’angoscia, a quando il ben-essere? In altre parole, è possibile esperire, sia pure nei limiti dell’umana condizione, qualcosa come un angosciato “star bene”?
E qui vi propongo la seconda parte della definizione di Berra della “depressione esistenziale”:
«Questo atteggiamento può apparire a volte eccessivamente pessimistico, non bilanciato da una visione positiva dell’esistenza. Per questo è opportuno considerare la depressione esistenziale una fase, un momento nella vita dell’individuo, che deve essere superata. Il permanere e il persistere in questa condizione, senza capacità di risoluzione, senza evoluzioni, fa sì che si possa passare progressivamente nelle forme patologiche, con una cronicizzazione dei sentimenti che divengono sintomi».

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Il rapporto tra l’individuo e la verità filosofica

Una «visione positiva dell’esistenza» ‒ stavo dicendo ‒ potrebbe sembrare quella fornita da Severino. Tutto è eterno. Non solo Dio ‒ ammesso e non concesso che, nei limiti del pensiero originariamente nichilistico dell’Occidente (e quindi, ormai, di tutto il Pianeta), possa esistere qualcosa come “Dio” e i suoi vari angeli secolarizzati ‒, non solo un essente privilegiato, ma l’essente in quanto tale è eterno. Certo, questo implica che sia eterno anche quell’essente che è il dolore. Ma il dolore ‒ e, pertanto, l’insieme delle contraddizioni in cui consiste l’individuo ‒ esiste già da sempre come oltrepassato nel cerchio infinito dell’apparire.

Tuttavia ‒ ammesso e non concesso che il “destino della necessità” sia l’ultima parola della Filosofia (e qui rimando al mio Necessità del divenire, dove si espone la configurazione più coerente della salvezza) ‒, qual è il rapporto tra l’individuo e la verità filosofica? In tutta semplicità, si può dire che l’individuo, proprio in quanto è fede, isolamento dal dubbio, volontà di potenza contrapposta alle altre volontà di potenza, al massimo può sapere e tentare di testimoniare la verità filosofica (anche se pure sulla natura di questa testimonianza ci sarebbe qualcosa da eccepire), ma non può essere illuminato da essa. Ed è qui che ‒ dicevo prima ‒ sta il nodo aporetico, che una relazione d’aiuto quale intende essere il Counseling Filosofico non può non affrontare.

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Ma questo sapere del destino non può essere sufficiente per l’individuo, il quale, hic et nunc, viene lasciato a se stesso dal discorso sul de-stino, senza potersi identificare con la verità.
[A monte di tutto ciò sta quello che Severino chiama «primo rovesciamento essenziale». In Eschilo, infatti, la verità è ancora il mezzo per realizzare quel fine che è la felicità umana. In un secondo tempo, però, si capisce che una verità lasciata nelle mani dell’individuo è una verità effimera. Da qui, in Platone e in Aristotele, la scaturigine di quell’epifenomeno in cui consiste la Filosofia come sapere dis-interessato. Perché dico “epifenomeno”? Perché la Filosofia ‒ sappiamo ‒ nasce da thauma, dall’angosciato stupore di fronte alla prospettiva dell’annientamento (figlia dell’ontologizzazione del divenir-altro), ovvero è la volontà di essere condotti, secondo le parole di Aristotele, nella direzione opposta (eis tounantion) rispetto appunto allo thauma. Si tenga presente, peraltro, che questa impostazione di pensiero permeerà anche le due principali religioni monoteistiche post-filosofiche, cioè cristianesimo e islam: non a caso, nel Pater noster ci si rivolge a Dio con le significative parole “fiat voluntas Tua”, «sia fatta la Tua volontà» ‒ non quella dell’uomo].

Nel discorso sul destino ‒ stavo dicendo ‒ il cosiddetto “mortale”, proprio in quanto è la sede del contrasto fra l’Io del destino e l’io empirico, esperisce in maniera discontinua la «letizia» di sapere della propria eternità15. E, in quanto cosiddetto “mortale”, anche Severino confessa di dubitare del de-stino, di avvertirlo talvolta come propria «costruzione arbitraria». Ma proprio questo dubitare, a suo avviso, è una conferma del de-stino, perché starebbe ad attestare che l’individuo è volontà isolante rispetto al de-stino. Ma ‒ si potrebbe obiettare ‒ forse che il dubbio non si estende anche a quella presunta conferma?

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