Nuova Rivista di Counseling Filosofico N°15 | Dr. Davide Dalmasso


Filosofia e relazione d’aiuto: camminare nella fragilità

A tal proposito, un elemento che desidero fin d’ora sottolineare con forza è costituito dall’effetto complessivamente e positivamente destrutturante esercitato su di me dall’intero percorso: le iniziali certezze, erette sulla teoria acquisita durante i primi due anni di Master, si sono in parte sciolte alla luce della pratica, ridefinendosi e lasciando emergere istanze nuove e consapevolezze maggiormente vissute ed elaborate. –Davide Dalmasso


Abstract

La filosofia rappresenta, nella relazione di cura, un’opportunità unica di esplorazione e di recupero dei significati. In tal senso, il concreto percorso di Tirocinio Pratico, costellato di ineludibili interrogativi, si pone come momento cruciale per la maturazione del counselor in formazione.

Parole chiave: autonomia ‒ consapevolezza ‒ cura ‒ filosofia ‒ responsabilità


Il tirocinio finale di Master costituisce un momento davvero decisivo per la formazione del counselor. Constatazione che, personalmente, trova piena legittimazione a partire dal concreto percorso da me svolto; percorso che, lungo il suo originale sviluppo, si è articolato in diverse direzioni e si è mosso su differenti livelli. Soffermandomi in particolare su uno dei diversi casi trattati, nel presente scritto cercherò, pertanto, di enucleare alcuni aspetti che hanno caratterizzato il mio peculiare itinerario, la cui complessiva realizzazione si è distinta per l’intensità del coinvolgimento personale e per la costante presenza di interrogativi fondamentali, dettati dalle inevitabili variabili intervenienti. A tal proposito, un elemento che desidero fin d’ora sottolineare con forza è costituito dall’effetto complessivamente e positivamente destrutturante esercitato su di me dall’intero percorso: le iniziali certezze, erette sulla teoria acquisita durante i primi due anni di Master, si sono in parte sciolte alla luce della pratica, ridefinendosi e lasciando emergere istanze nuove e consapevolezze maggiormente vissute ed elaborate.

Per iniziare, alcune brevi note d’insieme. Il mio tirocinio si è svolto presso un Consorzio Socio Assistenziale, ente locale che fornisce sul territorio di propria competenza molteplici servizi, sinteticamente riconducibili a interventi e progetti rivolti a soggetti disabili e a persone anziane non, o parzialmente, autosufficienti, nonché al sostegno delle famiglie, attraverso prestazioni di aiuto (anche di carattere economico), di assistenza o di accompagnamento. Escludendo, dunque, le figure professionali che, all’interno della struttura, occupano posizioni di carattere amministrativo, il personale è in gran parte contraddistinto da operatori specializzati nelle Relazioni di Cura e di Aiuto: assistenti sociali, operatori socio sanitari ed educatori professionali. Il mio progetto si è concentrato sulle prime due figure, individuando un campione, equamente distribuito e selezionato su base volontaria, di dieci partecipanti. L’organizzazione pratica dell’intero percorso è stata programmata in itinere con ognuno dei consultanti, a partire dall’obiettivo di svolgere incontri per complessive 150 ore, in sessioni della durata di novanta minuti circa l’una. Per quanto concerne la tipologia di setting adottata, ho deciso di svolgere un primo incontro, di carattere introduttivo, impiegando la modalità di gruppo, mentre gli incontri successivi si sono svolti attraverso il confronto individuale.

Davide Dalmasso, Master di Specializzare in Counseling Filosofico

L’incontro introduttivo di gruppo è stato suddiviso in due distinti momenti: il primo dedicato alla presentazione del Counseling Filosofico (praticamente sconosciuto ai più);

il secondo, invece, destinato ad un lavoro scritto individuale, in cui ho richiesto ad ogni partecipante di comporre una breve presentazione di sé, non certamente con lo scopo di elaborare uno schema preconcetto della persona, ma semplicemente per raccogliere un insieme di spunti che avrebbe reso più agevole e spontaneo il dialogo nel corso dei successivi incontri. Infine, una certa enfasi è stata da me posta sul carattere ampiamente esplorativo del lavoro che sarebbe stato intrapreso nei mesi successivi; lavoro che, ovviamente, avrei condotto io, ma la cui responsabilità sarebbe stata affidata alla curiosità del consultante stesso, al fine di farlo sentire immediatamente coinvolto e, soprattutto, stimolato ad indagare aspetti del proprio vissuto volutamente eterogenei, non solo confinati, quindi, alla dimensione professionale.

Il singolo percorso sul quale vorrei, ora, concentrare l’attenzione è quello che, di fatto, ha inaugurato la mia pratica di counselor in formazione; percorso caratterizzato, in particolare, dalla costante ricognizione in merito al significato del contributo filosofico per la relazione d’aiuto. Per ovvi motivi di riservatezza, tutti quelli d’ora innanzi menzionati sono nomi di fantasia.

Filosofia e relazione d’aiuto: camminare nella fragilità, Davide Dalmasso Counselor Filosofico Professionista

Giovanna è una donna di cinquantotto anni, e da circa trenta svolge l’attività di operatrice socio sanitaria.

In passato, Giovanna è stata anche insegnante elementare, presso una piccola scuola di montagna, ambiente, quest’ultimo, in cui è nata e cresciuta. A colpirmi, nel suo contributo scritto, è la seguente dichiarazione: «Ero una persona molto solare, ma ultimamente questo “sole” si è spento, non per motivi lavorativi ma personali: la mia vita privata è colma di problemi importanti che incidono sul mio vivere quotidiano». È, come specificato, la prima consultante che incontro individualmente, e il mio animo è “in subbuglio”: sarò pronto, mi chiedo, ad affrontare quest’esperienza? Giovanna ed io ci incontriamo, per la prima volta, in una fredda mattina di metà febbraio. La donna, che sta smaltendo i postumi di un’influenza, appare visibilmente provata. Fino all’ultimo è stata tentata di annullare l’incontro, ma poi, sia per correttezza nei miei confronti, sia, soprattutto, per il desiderio di avviare questo percorso, che dichiara di aver scelto con entusiasmo, si presenta con puntualità al nostro incontro. Allo scopo di dare avvio all’esplorazione, decido di partire chiedendole di raccontarmi qualcosa di più a proposito di quel sole che “spegnendosi” avrebbe oscurato la sua vita. A questa mia richiesta Giovanna risponde con un lungo sfogo, spesso interrotto dal pianto. Gli eventi che hanno contribuito al venir meno, nella sua vita, della luce sono cominciati quando, dieci anni fa, dopo la separazione dal marito e dai tre figli (uno dei quali, all’epoca, ancora minorenne), decide di avviare una convivenza con Alberto, un uomo di un paio d’anni più giovane di lei. Non si tratta di un colpo di fulmine: Alberto è, infatti, il suo meccanico di fiducia, una persona che conosce da parecchio tempo, e per la quale, d’altro canto, in passato non ha mai provato alcun tipo di interesse sentimentale.
Ma procediamo con ordine.

Giovanna si è sposata molto presto, intorno ai vent’anni, pochi mesi dopo aver conosciuto il suo uomo, desiderosa di conquistare l’indipendenza dalla famiglia di origine, piuttosto rigida: «Sposarmi», confessa, «è stato un modo per liberarmi». Dopo il matrimonio, i figli non hanno tardato ad arrivare. Il marito, a suo dire uomo succube della madre (donna autoritaria e possessiva), svolgeva la professione di autista e, pertanto, era spesso assente, anche per periodi prolungati. Giovanna ammette di essere sempre stata una donna molto estroversa, amante degli svaghi e della piacevole compagnia degli amici, ma anche molto impegnata nell’ambito del volontariato. Appena l’età dei figli glielo ha consentito, ha, dunque, cominciato ad uscire più spesso e a rinverdire la sua vita sociale. Tutto ciò si è sempre svolto apertamente, con l’approvazione del marito che, consapevole del suo bisogno di evasione, non si è opposto ai desideri di Giovanna; la quale dichiara, tra l’altro, di non aver mai intrecciato in quel periodo, o pensato di intrecciare, relazioni extraconiugali.

Poi, dopo circa venticinque anni di matrimonio, il suo meccanico, Alberto (anche lui, all’epoca, sposato, nonché padre di due figli), comincia, in virtù di una comune passione per i motori, a stringere un rapporto di complicità sempre più stretto con Franco, il maggiore dei figli di Giovanna, e, in modo sottile e indiretto, a corteggiarne la madre. Presto, la presenza di Alberto si fa più vivace e incalzante, e per la donna si tratta di un’esperienza totalmente inattesa: non abituata a vedersi colmata di così tante e scrupolose attenzioni da parte di un uomo, ma allo stesso tempo lusingata e sedotta dal fascino di un’adulazione costante e così carica di mordente, Giovanna decide di separarsi dal marito e dalla famiglia e di avviare una convivenza con quest’uomo, nonostante la profonda angoscia provata, in quel momento, nell’allontanarsi dai figli; tormento, ciò nondimeno, alleviato dalla presenza luminosa di Alberto e dalla sua totale abnegazione per la nuova compagna. Giovanna dice di non essersi mai sentita così appagata in tutta la sua vita: per la prima volta ha l’impressione di essere una regina, stretta nell’abbraccio premuroso del suo re. Lui le manifesta il desiderio di sposarla e vagheggia addirittura la possibilità di avere da lei un figlio, ma Giovanna, all’epoca, ha quarantasette anni e non se la sente proprio di accondiscendere a un simile progetto.

Questa seconda “luna di miele” dura all’incirca due anni, periodo trascorso all’insegna dei viaggi, dei divertimenti, della piacevole frequentazione degli amici. Giovanna asserisce che quest’uomo la faceva sentire accolta: insieme a lui condivideva molte cose, anche se la coppia andava isolandosi in una esclusività via via crescente: «Io ero contenta, non mi importava che le relazioni si fossero diradate; c’era lui, ed ero quasi io a preferire questa condizione». Poi il rapporto comincia ad incrinarsi, e l’abbraccio di Alberto, un tempo così amorevole, si fa, a mano a mano, “letale”.
L’uomo manifesta, con sempre maggiore e insistente veemenza, una possessività malevola, nutrita di ricatti e di puerili “prove d’amore”: se davvero Giovanna è innamorata di lui, allora dovrà dimostrarglielo, cancellando definitivamente dalla propria vita (e dalle conversazioni) l’ex marito e, in particolare, i figli, con i quali, trascorso un anno nella totale assenza di contatti, la donna ha cominciato a ricomporre, seppur faticosamente, un rapporto. Di fronte ad un simile “appello” Giovanna vive un acuto senso di smarrimento: da un lato, prova un profondo attaccamento per Alberto, attaccamento i cui contorni lasciano, tuttavia, trapelare una vera e propria dipendenza psicologica; pertanto, non osa contrastare le richieste dell’uomo, con il quale non ha neppure il coraggio di confrontarsi ed eventualmente di discutere con la dovuta ponderatezza.

Dall’altro, l’affetto nei confronti dei figli è un sentimento che, giustamente, non intende reprimere, e la pretesa del compagno finisce per generare in lei una certa acredine, soprattutto in ragione del fatto che Alberto, ottenuta la separazione dalla moglie, i propri figli li frequenta, e anche con una certa assiduità. Giovanna si sente, per la prima volta, tradita, e questa situazione finisce per alimentare un’atmosfera tesa, caratterizzata dai sotterfugi e dalle menzogne. Violando, seppur con un notevole travaglio interiore, le clausole impostegli dal compagno, Giovanna torna a frequentare segretamente la propria famiglia, finché un giorno le sue uscite, mascherate con i più svariati pretesti, palesano agli occhi di Alberto la loro reale natura. Lui la aggredisce verbalmente, ma l’alterco sfocia ben presto nella violenza fisica: Giovanna viene strattonata brutalmente, e una conseguente caduta le provoca l’incrinatura di due costole. Ai medici del Pronto Soccorso tace l’accaduto e dice di essersi fatta male inciampando e cadendo dalle scale. Trascorrerà i seguenti quindici giorni a letto, semi-immobilizzata.

[...]

Da un lato, infatti, Giovanna afferma di aver trovato utile il percorso poiché le avrebbe «fatto riscoprire il proprio io», rendendola consapevole della situazione invivibile di cui è prigioniera; ma, dall’altro, di non essere, tuttavia, «riuscita neanche a “pensare” di cercare» un cambiamento; dichiarazione la quale, in realtà, mi suggerisce che, al contrario, tale possibilità sia stata presa seriamente in considerazione dalla consultante. Intuizione, questa, suffragata dal fatto che, qualche riga più avanti, Giovanna ammette che «ad un tratto del percorso» le «era sembrato, persino, di avere avuto lo stimolo di volere e poter cambiare», per poi, subito dopo, tornare a dichiarare di essersi «di nuovo abbattuta e rientrata nelle» sue «idee e nella» sua «impossibile speranza che tutto possa tornare come un tempo». Rilevo positiva l’osservazione secondo la quale la donna asserisce di «aver capito che nulla cambia se non vuoi farlo cambiare», ma nuovamente lapidaria la considerazione immediatamente successiva, nella quale sostiene di essere «proprio così», di non voler «fare nulla», di sperare e vivere «per un ritorno», pur «consapevole che non ci sarà mai». Per concludere, penso sia significativo riportare un ulteriore riscontro, rimandatomi dalla stessa Giovanna che, alcuni mesi dopo aver terminato il percorso di tirocinio, mi ha comunicato, in un laconico messaggio, di aver lasciato di sua iniziativa, seppur con fatica, la casa di Alberto e di essersi stabilita, da sola, in un piccolo appartamento preso in locazione.

Mi piace pensare che un piccolo contributo, a questo importante cambiamento, sia da attribuirsi anche al nostro travagliato e paziente lavoro di esplorazione filosofica, nonché ai sedimenti da questo lasciati a germogliare.


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