Nuova Rivista di Counseling Filosofico N°14 | Dr.ssa Silvia Montobbio


Castelli e fienili. Come rapportarsi alla dimensione teoretica della filosofia nel Counseling Filosofico


Una filosofia ‘pura’ non può mai essere una filosofia pratica e, se lo fosse, diventerebbe terrorismo–Gerd B. Achenbach

L’uomo è un essere complesso, e non può limitarsi a vivere o a esistere. Volente o nolente deve prendere posizione sulla propria vita. Per questa ragione egli produce pensieri . Ma non è tutto: l’uomo è anche in grado di riflettere sui propri pensieri … non si deve temere la scomodità di questo ‘secondo pensare’ –Gerd B. Achenbach

Abstract

La questione che viene affrontata nel saggio è quella del rapporto tra la dimensione teoretica della filosofia e il counseling filosofico; l’obiettivo è quello di mostrare come non ci sia una netta contrapposizione tra speculazione pura e filosofia applicata. Anzi, le domande generali e i quadri concettuali astratti propri della filosofia possono diventare un potente strumento di lettura della dimensione esperienziale concreta e contingente.

Parole chiave: filosofia teoretica - filosofia applicata – counseling

Uno sguardo dall’elicottero. Premessa

L’esperienza del rapporto con la Filosofia conduce molti di coloro che la praticano quotidianamente ad avvertire una duplice spinta, da un lato verso la sua vocazione universale e la sua dimensione puramente teoretica, dall’altra, nello stesso tempo, verso la sua applicazione sul piano pratico alla vita dell’uomo, individuale o sociale e civile. Personalmente, pur nella netta consapevolezza della differenza tra i due livelli, mi sentirei di affermare che una speculazione pura che non si rivestisse poi di significati profondi a contatto col mondo e con la vita, che non avvertisse come urgenti i problemi dell’uomo nella loro concretezza, resterebbe autoreferenziale, un puro gioco intellettuale. In un certo senso si potrebbe applicare ad essa ciò che Husserl dice a proposito di un certo modo di intendere la scienza: “Nella miseria della nostra vita - si sente dire – […] non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l'uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell'esistenza umana nel suo complesso”.
In particolare c’è un aspetto del passaggio dalla speculazione astratta alla sfera pratica, etica o anche esistenziale, che mi ha sempre colpito, ovvero il fatto per cui tale passaggio non conduca affatto ad allontanarsi dalla teoresi o a snaturarla. Ciò accade –credo- per il fatto che sono gli strumenti stessi della teoresi, nella loro portata universale, a rivelarsi fecondi e illuminanti rispetto alla dimensione esperienziale concreta. In un certo senso sono proprio il concetto generale o l’interrogativo di fondo in quanto tali che si prestano alla applicazione, senza per questo venir meno alla loro universalità, in quanto svolgono efficacemente il compito di far superare una visione delle situazioni appiattita sui particolari, o passiva e acritica; proprio permettendo di sollevarsi sul piano della categorizzazione e della problematizzazione, essi costringono a non assolutizzare nulla, a far sorgere dubbi e interrogativi, a prospettare alternative o soluzioni, a prepararsi a scegliere e decidere con più consapevolezza…
E non si tratta, in questo, di trasferirsi nello spazio “freddo e asettico” del pensiero astratto, secondo certi luoghi comuni che resistono nel tempo, poiché anzi possono esserci molto calore e vicinanza sul piano umano, e molte emozioni, anche nella condivisione delle pure idee, condivisione che presuppone comunque una profonda empatia.

La questione dell’intreccio tra la vocazione teoretica della Filosofia e la sua applicazione alla concretezza esistenziale è dibattuta a molti livelli, ma è sicuramente centrale per chi si occupa di pratiche filosofiche e di counseling. Se il counselor si rapporta al suo interlocutore in un’ottica relazionale e si impegna in un intervento “di aiuto” rispetto ad un concreto problema, lo fa tuttavia pur sempre secondo lo specifico dell’approccio filosofico, unito all’utilizzo attivo di strumenti del pensiero filosofico stesso (concetti, categorie, interrogativi, linguaggi, metodi di analisi, prospettive).

Secondo un’espressione colloquiale che utilizzo nella mia esperienza di insegnante per definire sinteticamente la natura specifica dell’approccio filosofico, si tratterebbe della “visione-elicottero”, cioè della attitudine ad osservare ed interpretare la realtà concreta come “dall’alto”… Così come uno sguardo dall’elicottero, senza perdere di vista la concretezza dei particolari, riesce a vederne l’insieme e i contorni, e a inquadrarne la natura e le dinamiche meglio di chi la osservi da una angolazione interna, allo stesso modo lo “sguardo filosofico” può affrontare la complessità della realtà distaccandosi dalla sua concretezza immediata e interpretandola alla luce di quadri generali, concetti esplicativi, interrogativi di fondo, prospettive nuove…
Come afferma Berra, l’approccio filosofico al counseling consente di distaccarsi dalla particolarità empirica ponendosi su un piano che la trascenda, dal quale concettualizzarla e ricondurla a una dimensione essenziale, beninteso sempre con l’unico obiettivo di applicare tale sguardo “trascendentale” all’esperienza stessa: “La capacità di cogliere la natura e l’essenza di ogni elemento nel suo valore universale, necessita di una capacità di concettualizzazione e di indagine che sia il più possibile depurata, “mettendo tra parentesi” e sospendendo ogni possibile giudizio sulla cosa indagata […] come un processo di trascendenza conseguente a una modificazione dello stato di coscienza, e quindi anche della percezione del mondo e di se stessi, col raggiungimento di una “coscienza trascendentale”. Il filosofo pratico osserva e valuta le cose del mondo da una posizione privilegiata, vede totalità in luogo di particolarità, essenze invece che generalità”.

Allora provi un po’ lei a salvare la situazione con Kant!
Provocazioni e focalizzazione del problema

Non è possibile in questa sede affrontare in termini generali la problematica del rapporto tra dimensione teoretica e dimensione pratica della filosofia, che è peraltro una delle più essenziali e determinanti di tutta la storia del pensiero. Ovunque infatti si potrebbero trarre spunti e provocazioni: dall’aneddoto su Talete che cade nel pozzo per guardare le stelle al relativismo sia teoretico che etico dei Sofisti; dal profondo significato esistenziale, etico e politico della speculazione di Socrate e di Platone (intrecciato tuttavia al tema della sua finalità contemplativa) alla filosofia come “fàrmaco” in età ellenistica; dalla complessità delle ricadute etiche di tutte le forme di razionalismo dell’età moderna alla specularità, che c’è indubbiamente in Kant, tra la “rivoluzione copernicana” in campo teoretico e quella in campo etico; dalla assoluta opposizione tra Hegel e Kierkegaard per quanto attiene al rapporto tra esistenza del singolo e totalità metafisica alla filosofia come prassi in Marx; dalle vertiginose implicazioni del nichilismo di Nietzsche per gli scenari della condizione umana al profondo intreccio che c’è in Heidegger o in Sartre tra riflessione filosofica sulla coscienza (fenomenologica o non) e analisi della condizione esistenziale, per non soffermarsi su altre sollecitazioni come ad esempio quelle di Habermas o, ancor più, di Arendt.

Sarà quindi opportuno limitarsi alla discussione di questa problematica dal punto di vista del counseling filosofico, o almeno di qualche suo aspetto il più possibile significativo; per farlo, si potrebbe muovere, più che da una rassegna “asettica” delle diverse posizioni teoriche, da qualche provocazione che permetta di entrare direttamente in medias res… Personalmente mi sono imbattuta in una di queste provocazioni proprio leggendo “La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità di vita” di Gerd B. Achenbach e trovandomi in imbarazzo di fronte alla sua affermazione:“una filosofia ‘pura’ non può mai essere una filosofia pratica e, se lo fosse, diventerebbe terrorismo”.

Achenbach insiste a lungo sul principio per cui la filosofia, nata all’inizio come pratica e poi “tradita” da secoli di filosofia accademica, potrebbe riappropriarsi oggi della sua vocazione originaria con la nuova stagione della consulenza filosofica; anzi, da questo punto di vista, la sua posizione rispetto al rapporto tra dimensione teoretica e concretezza di vita è già ben anticipato nella citazione di Novalis che ricorre nel testo secondo cui “Il socratismo è l’arte di trovare il posto della verità a partire da ogni luogo dato e così di determinare precisamente i rapporti di ciò che è dato con la verità”.

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Achenbach infatti dapprima discute le conclusioni che Schulz trae dalla distinzione kantiana tra “filosofia secondo il concetto di scuola” e “filosofia secondo il concetto di mondo”: quest’ultima, costituita da interrogativi così generali e fondamentali che “devono poter interessare chiunque”, mantiene la sua validità anche nell’orizzonte della consulenza, permettendo di collegare i problemi della vita reale con un “radicale domandare filosofico”; ma subito dopo si spinge ad affermare che “la filosofia non è più competente per sciogliere con delle risposte” i grandi interrogativi posti come quelli posti da Kant. Si tratta dei noti “Che cosa posso sapere?”, “Che cosa devo fare?”, “Che cosa posso sperare?” e “Che cos’è l’uomo?”: secondo Achenbach la consulenza filosofica dovrebbe “rigirare radicalmente le domande kantiane” e la nuova versione dei quattro interrogativi proposta è la seguente:“Che cosa so?”, Che cosa faccio?”, “Che cosa spero?” “Chi sono?”

Ora, a mio giudizio, tale riformulazione potrebbe essere in contraddizione con gli assunti del counseling filosofico, anche quelli proposti da Achenbach stesso: è chiaro l’intento di proporre un’angolazione più soggettiva da cui porsi gli interrogativi, di calarli nella “concretezza esistenziale”, ma resta il fatto che queste formulazioni sembrano sostituire alla questione di principio una sorta di prospettiva meramente “descrittiva”, quasi una presa d’atto dell’esistente, quando la Filosofia come tale non può mai in nessun caso limitarsi a prendere atto dell’esistente. Anzi, l’approccio filosofico non assume mai qualcosa per come è fattualmente, bensì lo interroga, lo analizza, lo ricompone, lo interpreta, lo valuta… E –importante- prospetta possibilità alternative. Da un lato lo fa in relazione alla fattualità -come stanno le cose- ma dall’altro, almeno in chiave dialogica, anche in relazione ad una dimensione “ideale” -come dovrebbero (o forse potrebbero) essere- pur con tutta la prudenza, la non direttività e l’antidogmatismo possibili…

In particolare, il counselor filosofico, se vuole condurre il suo interlocutore a ripensare razionalmente e criticamente la propria condizione, dovrà pur accompagnarlo in un percorso che gli permetta di non appiattirsi sull’esistente, di non limitarsi ad un’ottica descrittiva (più psicologica che filosofica), di non esporre che cosa sa o fa o chi è…. L’approccio filosofico che gli proporrà sarà piuttosto orientato a problematizzare, a riprendere il tutto in esame alla luce di domande e anche questioni di principio, a interpretarlo e valutarlo alla luce di importanti concetti-chiave. Benché anche Achenbach evidenzi tutto questo, in un altro passaggio dello stesso testo, sempre l’etica kantiana diventa ancora per lui un esempio di approccio inutile nelle esperienze di counseling: egli afferma che questa pratica, dovendosi riallacciare “all’individuale e all’unico”, “non può aspettarsi molto, oppure solo molto poco, dalla filosofia di Kant” e, ipotizzando di utilizzare tale filosofia a fronte di un concreto caso di “crisi decisionale etica”, conclude con l’espressione “Allora provi un po’ lei a salvare la situazione con Kant!”
Ora, questa resistenza -proprio da parte dell’autore che ha gettato le basi della consulenza filosofica- all’idea di valorizzare prospettive teoretiche come quella kantiana a livello di applicazione al concreto è un’occasione per approfondire proprio la questione del raccordo tra teoresi e applicazione pratica nel counseling.

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Verità soggettive e verità in sè

In un dialogo sulla vita come quello condotto da un counselor con il suo interlocutore, la possibilità di aiutare quest’ultimo a superare, o almeno ad affrontare meglio, i propri problemi passa sicuramente anche attraverso il confronto tra le “verità” particolari e transitorie (a volte costruite in modo precario o incoerente) con la “verità in sé”, intendendo con questa espressione –beninteso- non un modello predefinito ma un orizzonte di possibilità di comprensione e di valutazione più ampio.

La verità

Come sostiene Natoli “La filosofia è ricerca della verità in sé e quindi anche per noi e su di noi: per questo può essere una via di liberazione dal dolore, può renderci capaci di tener testa alle distrette della vita. […] La filosofia, nel suo massimo esercizio, è pratica del distacco e guarda ogni cosa ‘sub specie aeterni’. Ci redime da noi stessi e per questo può capitare che sciolga i nostri piccoli o grandi problemi”


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